mercoledì 16 luglio 2014

Il labirinto delle riforme



Riformare l’Italia, migliorare il funzionamento di istituzioni da tempo stantie, è stata sempre un’impresa degna di Sisifo. Ora, sotto la frusta renziana, sembrava che finalmente il cammino del rinnovamento fosse stato imboccato, ma si è presto entrati in un nuovo labirinto, per uscire dal quale occorre davvero un robusto filo di Arianna, probabilmente rappresentato da un finale colpo di forza da parte della maggioranza, che non è certo produca risultati troppo felici.
Perché? Un po’ perché le resistenze corporative continuano ad essere forti, diffuse e sornione. Parecchio, però, perché il Premier ha scelto una strada che non è per definizione la migliore: invece di limitarsi a indicare obiettivi di massima (superamento del bicameralismo perfetto, riduzione del numero dei parlamentari), lasciando al Parlamento il dibattito e la definizione dei contenuti specifici, è entrato in dettagli suscettibili di discussioni (corporative, alcune, altre ispirate da una genuina preoccupazione di far bene le cose). Oggi, perciò, mentre tutto fa pensare che gli obiettivi generali siano a portata di mano, i maledetti dettagli (nei quali, come si sa, sta il diavolo) rischiano di ritardare e rendere più difficile il tutto e di mettere il Premier di fronte a un dilemma: o fa il braccio di ferro su tutto, con il costo politico che ne deriva, o fa marcia indietro su alcuni punti, apparendo sconfitto.

Un esempio classico è la riforma del Senato, che parte dall’esigenza reale di rendere spedita l’attività legislativa e politica in Italia, come lo è in tutto il resto d’Europa. È un obiettivo legittimo e sarebbe stato possibile e agevole raggiungerlo se Renzi avesse detto: questo è il punto d’arrivo, il resto spetta al Parlamento deciderlo. E invece si è fissato sulla rappresentatività indiretta dei senatori, cioè sulla loro designazione da parte dei Consigli regionali (in origine, addirittura, dovevano essere Presidenti di Regione e Sindaci dei maggiori comuni, confondendo così attività esecutiva e legislativa). Non c’è nulla di peccaminoso in questo, intendiamoci, il sistema esiste e funziona in Germania e altrove. Ma non vi è dubbio che esso sottrae ai cittadini la scelta dei membri di una delle due Camere e la subordina alle designazioni dei partiti. Non sarebbe molto più facile, molto più democratico, tornare all’elezione diretta, ferme restando riduzione del numero e competenze? Tra l’altro, ciò permetterebbe di disinnescare un altro problema abbastanza pretestuoso, quello delle immunità, che è ragionevole mantenere per rappresentanti eletti dal popolo, a tutela contro gli eccessi del potere giudiziario.
Altri punti, forse minori: sono spariti i sei senatori rappresentanti degli Italiani nel Mondo; che gli abbiamo fatto di male, noi residenti all’estero, al patrio governo? E ancora, il Senato a vita era un modo opportuno per dare uno status agli ex-Presidenti della Repubblica e continuare a profittare della loro esperienza nell’attività legislativa. Era una particolarità che ci distingueva positivamente da tutti gli altri sistemi repubblicani, in cui i Presidenti, al termine del loro mandato, vanno a casa e si fanno dimenticare. Ora essa pare scomparire. Perché?
Non parliamo neppure della legge elettorale. Anche qui, l’obiettivo pareva ovvio e legittimo: assicurare la governabilità. Ho scritto fino alla sazietà che la via maestra sarebbe stato il sistema francese del doppio turno, sul quale era fermamente orientato il PD. Si è scelta una formula diversa, più complicata (più pasticciata). Ma alla fine, il ballottaggio tra liste, o coalizioni arrivate prima e seconda al primo turno, è  un metodo come un altro. Ma perché ostinarsi a vietare le preferenze?
Sospetto che molte delle cose incomprensibili nella linea renziana derivino dall’esigenza di ottenere e poi mantenere il consenso di Berlusconi, il quale ha potuto imporre le sue idiosincrasie. Ora, cercare per le riforme un consenso ampio è certamente lodevole, ma alla fine, quando il consenso obbliga a compromessi e pasticci, meglio andare avanti con una maggioranza, ridotta ma coesa.
Ora che Grillo ha scoperto le bellezze del dialogo, a tutte le incertezze emerse finora si aggiungono quelle che deriverebbero dal dover tener conto delle posizioni di 5 Stelle. Logico, potrebbe dirsi, perché se si accetta di aprire un dialogo con il nostro avversario naturale, il minimo che si può fare è ascoltarne le proposte e tenerne un certo conto. Se no è aria fritta. Ma alla fine il Governo viene a trovarsi in una posizione di equilibrio instabile tra Grillo e Berlusconi, interlocutori diversi e opposti, le cui esigenze non credo che siano conciliabili. Come ne uscirà? Speriamo non con ulteriori pasticci.
(Fonte)
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