domenica 23 marzo 2014

C’ERA UNA VOLTA IL SENSO DELLO STATO


Chi ha l’età, e la voglia per guardare a ritroso nel tempo, in questo paese farà fatica a trovare coerenza e consecuzione logica in molte scelte di politica economica.
Un terreno tra i più scivolosi è il tema della partecipazione pubblica nell’economia. In nessun paese come in Italia ha fatto così sfacciatamente comodo tenere aperto il dibattito ottocentesco tra Stato e Mercato,  stimolando menti eccelse e dissimulando elegantemente la sostanza di saccheggi pubblici.
C’erano una volta grandi beni pubblici, banche, industrie. Pensate, addirittura c’erano banche che prestavano soldi e industrie che investivano nello sviluppo del paese!
Ma le menti eccelse del paese, e quelle di tutte le merchant che parlano inglese, erano preoccupate. La proprietà pubblica non assicurava sufficiente professionalità, trasparenza e concorrenza. Servivano università, istituti di ricerca e convegni per emancipare l’Italia verso le liberalizzazioni e le privatizzazioni. Evviva, l’Italia si modernizza, ma da sola poveretta non ce la fa, ci vogliono le banche e fondi esteri ad aiutarla.  Se c’è da dar una mano a comprare le azioni di Enel, Terna o Eni loro ci sonograzie a dio. Però ci vogliono tanti soldi e i fondi son bravi ad averli. Mi viene già il sospetto che una grossa fetta gli arrivi dai risparmi degli Italiani, ma congeliamo la curiosità per il momento.
Finalmente le grandi partecipazioni escono dai beni pubblici ed entrano in quelli privati.  Certo arrivano nelle casse pubbliche ingenti risorse, ma senza vincoli di destinazione né adeguata politica economica si perdono in un batter di ciglia.  Vabbè resta la grande soddisfazione della modernizzazione delle società.  Non si fa in tempo a gioire, che la banche, stavolta private, hanno bisogno di grande sostegno pubblico e ricapitalizzazioni. Chi paga? Gli italiani. Come? Beh i grandi gruppi industriali spiegano alle autorità che se lo Stato ha la pretesa di veder un po’ di dividendi alla fine dell’anno bisogna che lor signori tengano alte le tariffe il più possibile. Chi paga le tariffe? Gli italiani. Appunto.
Il tempo passa ed il reddito disponibile degli italiani e il credito per le piccole imprese sono allo stremo e ne parlano ai loro referenti politici, questi si rivolgono ai grandi capitani d’impresa e alle banche ma ricevono ineccepibili “non possumus”. Ma come, non sanno i politici che le società erano state quotate per essere modernizzate?  Decide il mercato. Il mercato è esigente, sta mica li a pettinar le bambole, chiede ritorni del 15-20% per business a tariffa privi di concorrenza e a basso rischio. Si sa! (?!) Dunque gli italiani devono pagare tariffe alte, scordare i prestiti e soprassedere. I grandi manager riscuotono applausi riconoscenti dai signori in gessato blu.  Intanto una parte delle menti eccelse è stato assunto o diventato advisor delle banche, i più bravi anche altissimi dirigenti dello Stato, Ministri o addirittura Presidenti del Consiglio. Accipicchia.
A questo punto mi vado a guardare l’enorme massa di risparmi previdenziali e assicurativi degli italiani e scopro che questi soldi sono investiti in larga misura in fondi esteri.  A questo punto non sto più nella pelle e scopro che quasi il 90% non viene reinvestito in Italia.  Ma come, mi dico, gli italiani che lavorano non hanno più reddito disponibile anche perché assorbito dalle tariffe altissime, quelli che non lavorano hanno investito gran parte dei loro risparmi in soggetti che non concedono crediti agli italiani e non investono in Italia, almeno fino al momento in cui i prezzi non saranno da saldi. Ma manca davvero pochissimo, basta portar pazienza.
Nel frattempo anche i grandi manager annunciano agli analisti confortanti strategie di investimento all’estero, per carità di dio non in Italia. Ne ricevono pubbliche lodi e private promesse di aiuto al momento delle ri-nomine.
Stremato dalle analisi mi posso finalmente sedere, tutto torna. Lo Stato è moderno, i fondi e le banche estere ricche e appagate, le società (ex) pubbliche internazionali e indipendenti (sostenute dai redditi degli italiani).  Certo c’è questo tema, secondario, della ricchezza e delle prospettive di sviluppo degli italiani, ma soprattutto c’è il tema di una politica senza leve e prospettive. Vabbè, non si può risolvere tutto. In più, una politica così è più facile da infragilire e ridicolizzare a piacere.  Basta un fondo su qualsiasi testata scritta dalle menti eccelse.
La crisi morale ed economica è anche figlia della crisi di ruolo e rappresentanza della politica. Lo smarrimento collettivo del ruolo e del senso dello Stato è anche prodotto della mancanza di leve politiche per incidere sui sistemi economici e sociali.  Il senso dello Stato è inevitabilmente destinato ad evaporare progressivamente con l’evidente crescente incapacità della politica di pensare e incidere sullo sviluppo e sulla creazione e ridistribuzione della ricchezza.
È impensabile immaginare credibili prospettive in questo Paese senza ripensare in modo efficace al ruolo e alla missione pubblica nell’economia. Non certo un dibattito stucchevole e sviante sull’assetto azionario pubblico o privato ma una riflessione su come rimettere il bene pubblico, il benessere e lo sviluppo all’interno delle missioni delle società pubbliche.  E questo può essere fatto senza pregiudicare il mercato né la professionalità e redditività delle imprese ma anzi costruendo le condizioni di equilibrio di lungo periodo tra economia e società.
Non c’è equilibrio economico senza equilibrio sociale di lungo periodo.
Anche qualcuno in gessato blu se ne sta rendendo conto. 
(di: Ulisse Stanzieri - Fonte)
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