sabato 15 febbraio 2014

I Marò e la Tosi, un’azienda fatta fallire dall’India



Quegli incroci tra un gioiello della meccanica italiana in fallimento e gli indiani di Gammon



Nei rapporti già difficili tra India e Italia, minati dalla vicenda dei Marò e dal processo sulla tangente per i 12 elicotteri AW101 di Agusta Westland, spunta pure il caso della Franco Tosi. L’azienda di Legnano, fiore all’occhiello della meccanica italiana con Riva e Ansaldo fino alla fine degli anni ’90, in amministrazione straordinaria (legge Prodi) dal settembre 2013, in pancia 200 milioni di euro di debito, è da mesi in attesa di risposte dal governo per la vendita coordinata dal commissario straordinario Andrea Lolli. A quanto pare adesso è tutto slittato a giugno, quando - secondo la Fiom Lombardia – si rischia di iniziare  «lo spezzatino di vendita»

Ma l’intreccio tra i 400 lavoratori in cassa integrazione, i sindacati sul piede di guerra, e il 75% della proprietà in mano alla Gammon - colosso delle costruzioni con più di 4mila dipendenti in India arrivato nel 2008 -  non lascia presagire nulla di buono per il futuro. Anche perché in queste condizioni la Franco Tosi è ferma al palo. Ha già perso due commesse (in Nicaragua e Bolivia) e non può operare, se non per le semplici operazioni di service. «Anche la Gammon in India è sull’orlo del baratro», spiega un dirigente a microfoni spenti, «non vorremmo che il fallimento della Tosi o la perdita delle garanzie bancarie comportasse un peso per il bilancio degli indiani: per questo motivo, forse, si sta prendendo tempo».  

La storia della Tosi è molto simile a quella di altre grandi aziende della meccanica italiana, specializzate in turbine per centrali idroelettriche o termoelettriche a vaporeC’era una volta un’impresa immensa, nata nel 1881, capace di dare lavoro a più 5mila persone su un’area di quasi 350mila, con un passato ripreso pure nei libri di storia e nel Museo della Scienza e della Tecnica di Milano. La Tosi vanta un parco macchine installato nel mondo per una potenza elettrica pari a poco meno di 100 Gigawatt, e gode di una ottima reputazione per qualità tecnica e realizzativa. Attualmente la Tosi ha ancora un parco macchine e attrezzature di officina se non uniche di primissimo piano per grandezza e capacità nel panorama italianoEppure questo non è bastato alla Tosi per far valere le proprie ragioni, aggiornarsi e immettersi sul mercato della meccanica internazionale con successo

I problemi sono iniziati alla fine degli anni ’90, quando il gruppo Finmeccanica, con Ansaldo Energia, iniziò a tagliare i lavoratori. Scioperi, tensioni, i debiti, un insoluto con Equitalia di quasi 50 milioni di euro, la carenza di aggiornamento tecnologico, sono stati tutti problemi che si sono sommati di anno in anno. E che nessuno è riuscito a risolvere. Nel 2000, quando la Tosi vanta un capitale sociale di oltre 70 miliardi di vecchie lire (45 milioni di euro) arriva l’imprenditore varesino Gianfranco Castiglioni, già patron della Cagiva. 

Il morale dei lavoratori è alle stelle, ricordano le cronache dell’epoca. Ma qualcosa va storto perché dopo appena 8 anni la situazione sembra precipitare, anzi pare persino peggiore rispetto agli anni ’90. Arrivano gli indiani della Gammon che puntano sul rilancio dell’azienda. I governi Prodi e Berlusconi provano a dare una mano. E provano a rilanciare l’industria immettendo nuove liquidità e sviluppando dei piani integrati con il Politecnico di Milano. Ma non c’è niente da fare. I soldi finiscono in fretta, forse vengono spesi anche male per tappare altri buchi, le banche chiudono le fidejussioni e non si fidano degli indiani. E così si arriva all’anno scorso, quando la “questione indiana» esplode a Legnano.

Fino al luglio del 2013 come amministratore delegato della Tosi c’è Shiva Duggirala, manager Gammon, che a quanto pare non ha fatto bene i calcoli dopo aver rilevato l’azienda. Nella scorsa estate, infatti, si parla di fallimento immediato per la Tosi. Di soldi non ce ne sono più in cassa. Così ai primi di luglio si cambia, Duggirala si dimette e arriva Vinod Sahai, indiano da più di quarant’anni in Italia, già manager Fiat e presidente dell’Indian business forum of India e dell’Associazione indiana del Nord Italia. Sahai in Italia e in India conosce tutti, tra politica, baca e finanza, tanto che nel 2012, quando scoppia il caso dei Marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, accusati di aver ucciso ingiustamente dei pescatori, è proprio lui a farsi carico di risolvere la questione giudiziaria con l’India. Ne parla persino in un colloquio con Libero dove si dice «ottimista del loro ritorno». A distanza di due anni però i nostri due militari rischiano la pena di morte e allo stesso tempo la Franco Tosi è tutt’ora ferma al palo

Il 25 luglio del 2013 infatti il tribunale di Milano certifica l’insolvenza della Tosi. Il fallimento viene scongiurato, a Legnano si avvalgono della Legge Prodi sulla amministrazione straordinaria. Si apre alla vendita dell’azienda. E qui incominciano le stranezze. Tra gli offerenti c’è la Termomeccanica Italiana di La Spezia,  105 milioni di euro di valore con un debito di 25. Vogliono gli stabilimenti di piazza Monumento per costruire un nuovo polo della meccanica in Italia. Tra le offerte però spunta pure quella della Patel Engineering, azienda indiana con sede a Dubai, che a quanto pare non ha un «carattere industriale», promette commesse per 300 milioni di euro e vanta un rapporto proprio con la Gammon: nel 2007 le due aziende avevano stabilito una joint venture per la costruzione di una centrale idroelettrica da 434 Mw a Himacal Pradesh, in India. 
A Legnano qualcuno si domanda che cosa stiano combinando gli indiani. Eleonora Cimbro, deputato del Partito Democratico, ha presentato un’interpellanza parlamentare, a cui il ministero dello Sviluppo Economico ha risposto senza aggiungere molto di più di quello che già si sapeva. E allo stesso tempo i sindacati sono pronti a rivolgersi al tribunale. «Il commissario straordinario ha il compito di tentare la vendita complessiva, non di spacchettare l’azienda pezzo per pezzo, vendendone segmenti sparsi, magari appetibili senza darne alcuna informazione con conseguenze occupazionali inaccettabili e pesantissime per i lavoratori». Il segretario generale Mirco Rota dice: «Se queste cose fossero vere, non esiteremmo un istante a denunciare il tutto alla Procura della Repubblica». Qualcuno sta facendo l’indiano?
 (Fonte)
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