giovedì 2 gennaio 2014

Intervista a Vandana Shiva: la Ue va contro la biodiversità



Quella di un albo europeo delle sementi è una proposta sbagliata. L'uniformità è un meccanismo industriale, non si adatta alle caratteristiche del pianeta. Sulle sementi devono decidere le comunità locali, non Bruxelles.

Nel maggio scorso, in nome della salute dei cittadini, la Commissione europea ha adottato una serie di provvedimenti riguardanti i principali settori della catena agroalimentare. Un pacchetto di leggi, che punta a istituire un organo di controllo per analizzare e approvare ogni pianta e seme coltivati in territorio europeo. Tra le principali conseguenze per i coltivatori, l’appesantimento della filiera con nuovi oneri amministrativi ed economici, il divieto di scambiarsi o conservare sementi ricavate da un raccolto per l’annata successiva. Contro questa prospettiva si batte Navdanya International, una rete presente in 16 paesi e impegnata a promuovere agricoltura sostenibile, biodiversità e sovranità alimentare. A guidare il movimento è Vandana Shiva, la scienziata e attivista indiana, una delle voci più autorevoli in difesa della natura e della sua biodiversità.

Signora Shiva, quanto il fenomeno del recupero delle terre incolte è legato alla crisi dei modelli di sviluppo perseguiti dall’Occidente?

«La crisi è stata innescata da un sistema che mette al centro l’avidità, lo sfruttamento del suolo e delle persone. Un meccanismo che genera terre e cittadini desolati. Ma la terra e gli individui non possono essere considerati un rifiuto. I terreni pubblici possono essere il volano per modelli di sviluppo diversi, che facciano convergere la creatività delle persone con la fertilità della terra. La diversità è nella natura del mondo, tuttavia, in questo momento si trova sotto il tiro dell’Unione europea.»

Quali sono i motivi per cui la sua associazione si batte contro la proposta di regolare le sementi?

«Consideriamo sbagliata la proposta di creare un albo europeo delle sementi che si possono vendere e scambiare. Un buon seme deve essere testato in un particolare luogo e da uno specifico gruppo di persone: deve appartenere a una varietà locale adattata, può essere trasferito da un continente all’altro, ma mantenere le caratteristiche legate al luogo in cui è cresciuto. L’uniformità perseguita dalla Ue significa imporre semi male adattati che per crescere avranno bisogno di più pesticidi, più vulnerabili alle trasformazioni climatiche e che comporteranno un più frequente fallimento delle coltivazioni. L’uniformità è un meccanismo industriale, non si adatta alle caratteristiche del pianeta.»

Chi trarrebbe vantaggio dalle nuove regole?

«La legge sancirebbe il definitivo passaggio dell’agricoltura nelle mani delle multinazionali e, contemporaneamente, la fine di coltivazioni e attività agricole di piccola scala. La Commissione europea agisce a favore delle multinazionali della chimica. I loro interessi spingono in direzione opposta rispetto all’economia dell’autosufficienza. I grandi gruppi sono interessati a creare un sistema di proprietà sul seme, privatizzandone le caratteristiche. Ciò significa che per ogni seme piantato bisognerà versare i diritti a 5 grandi multinazionali con la conseguenza di impoverire le comunità. Nei fatti, la legge permetterebbe di introdurre una nuova tassa sul seme.»

Qual è il ruolo degli orti urbani all’interno di questa mobilitazione?

«Il movimento degli orti e quello per la libertà dei semi possono contrastare la proposta della Commissione, che non farà altro che rendere la crisi più aspra. Quando si crea un giardino non si può coltivare solo un prodotto. Ci vuole un po’ di tutto: la vigna, gli olivi, gli alberi da frutta, gli ortaggi, quello di cui si ha bisogno per sé o che si può scambiare o vendere ad altri. Un orto è diversità ed è su essa che si fonda la libertà. Per questo, ogni orto urbano dovrebbe diventare una zona di semi liberi.»

Quali sono le differenze tra norme europee e quelle del suo paese?

«Noi indiani abbiamo respinto una normativa simile grazie a un imponente movimento popolare. Nel 2004 ci fu il tentativo di introdurre la registrazione obbligatoria dei semi che avrebbe reso illegali le sementi raccolte dai contadini sulle proprie terre. Ho attraversato il paese per informare la popolazione su quanto stava avvenendo, fondando un Satyagraha del seme, il termine che veniva utilizzato da Gandhi per indicare la lotta nonviolenta in nome della verità. Di quella legge non è mai stato permesso il varo. In Europa sta invece accadendo qualcosa di profondamente sbagliato, perché quelle che dovrebbero essere decisioni locali sono assunte dalla Commissione europea, quelle che dovrebbero essere scelte democratiche sono dettate dalla dittatura delle multinazionali. Penso che il disegno europeo debba essere contrastato da un forte movimento popolare a cui si uniscano i governi locali e nazionali. Solo per fare un esempio, l’Italia è molto diversa dalla Scandinavia: i raccolti, la terra, la qualità dei terreni, i cibi, la cultura sono diversi. Sarebbe un crimine imporre uniformità alla varietà del mondo.»

Che contributo è in grado di dare l’agricoltura industriale al prodotto interno lordo dei paesi in espansione?

«L’idea secondo cui i Brics registrano una crescita elevata è stata smentita dai fatti. Quest’anno il Pil dell’India si attesta al 3,8 per cento, un tasso inferiore a quello precedente alla globalizzazione e all’avvento delle politiche neoliberiste. Il 40 per cento dei problemi climatici deriva dall’agricoltura industriale che ha distrutto la biodiversità, favorendo la dipendenza dai carburanti fossili. Il petrolio si sta esaurendo, diventando più costoso. Noi dobbiamo andare oltre: se abbandoniamo un’economia morta basata sugli idrocarburi per passare a un’economia vitale fondata sulla biodiversità, risolviamo il problema climatico, quello alimentare e quello della disoccupazione.»

Negli ultimi anni il settore dell’agricoltura è tornato a crescere. Molti giovani sono tornati a svolgere il lavoro dei propri nonni. Porterà dei vantaggi il ritorno alla terra?

«Penso che il ritorno alla terra sia l’unico futuro per l’umanità, perché i modelli che suggerivano di scappare dalle campagne hanno ampiamente dimostrato i propri limiti. I governi non creano più posti di lavoro, le multinazionali e l’economia globale non generano più occupazione. L’unica vitalità è nella terra e, cosa ancora più importante, noi dobbiamo essere parte di essa per coltivare il futuro. Se non cambieremo il sistema di idee che ci vuole separati da essa, non creeremo mai le condizioni per conservare la vita sul nostro pianeta.»

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