venerdì 21 giugno 2013

Tra un po’ ci diranno che non occorre che i poveri mangino



Finalmente ci sono delle notizie allegre a proposito dell’economia. Un settore sta esplodendo, ed è la fiorente attività dei banchi alimentari. Il numero delle persone che li utilizza, perché troppo povere per permettersi il cibo, si è triplicato l’anno scorso, arrivando a 500.000. Quando Fred Goodwin [ex direttore generale della Royal Bank of Scotland – n.d.t.] verrà a sapere che ci sono banche che aumentano così tanto il loro giro d’affari, lancerà un’offerta di acquisto, sperando di raddoppiare il prezzo delle azioni prima di farle crollare per poi assegnarsi un premio di cinque milioni di confezioni di salsa all’aglio. 

L’Oxfam afferma “le modifiche al sistema dei sussidi sono la ragione più comune del fatto che la gente si rivolge ai banchi alimentari”, ma il Dipartimento del Lavoro e della Previdenza non è d’accordo e afferma che il sistema dei sussidi fa sì che “nessuno debba lottare per soddisfare i propri bisogni fondamentali”. E deve essere vero, fintanto che non si include il cibo tra i bisogni fondamentali.

In realtà il fenomeno dimostra quanto fuori controllo sia finito il sistema dei sussidi, quando così tanti richiedenti lo sprecano in frivolezze come la roba da mangiare. Chi vive di sussidi dovrà imparare a vivere di beni che siano meno costosi del cibo, come passeggiate di buon mattino, senso dell’umorismo o particelle di luce. 

Ian Duncan Smith [segretario di stato britannico per il lavoro e la previdenza – n.d.t.] potrebbe anche dir loro che lui è proprietario di una casa in stile Tudor da due milioni di sterline [circa 2.350.000 euro – n.d.t.] e che parte dei suoi mobili è in circolazione da trecento anni e non ha mai avuto bisogno di un solo piatto di cibo in tutto quel tempo, il che dimostra che si può fare. 

Il governo sembra anche suggerire che non ci sono rapporti tra le modifiche al sistema dei sussidi e il numero crescente degli utenti dei banchi alimentari. Perciò deve esserci qualche altro motivo. Forse dev’essere quella faccenda dell’episodio del programma River Cottage in cui Hugh Fearnley-Whittingstall [il conduttore del programma] cena con un barattolo di zuppa e fagioli stufati e dice: “Tutti gli ingredienti devono assolutamente provenire da un banco alimentare, in quanto la vicinanza con la disperazione conferisce loro uno squisito sapore piccante.” 

O forse lo spiega l’articolo di A.A.Gill su un banco alimentare che dice: “Si aveva appena il tempo di pulirsi il palato dai più succulenti tranci di tonno in salamoia, allettanti e tuttavia birichini nelle intenzioni della loro vaschetta, quando ci si imbatteva nelle virtù davvero celestiali dello yoghurt alla vaniglia Mueller, servito con la massima eleganza da un volontario della Oxfam nello scenario angelico di un parcheggio sul retro della Lidl.”  
La loro popolarità è così tanto cresciuta che il Relatore Speciale dell’ONU sul Diritto al Cibo ha affermato che il governo “ora li accetta come la norma, cosa che assolutamente non dovrebbero essere.” Forse è proprio questo il piano: rendere i banchi alimentari così comune che noi accettiamo come parte della nostra cultura che molti sono troppo poveri per permettersi il cibo.
A intervalli di qualche settimana uno dei concorrenti del programma Come Dine with Me [Vieni a cena da me] dirà: “Come antipasto ci sarà una zuppa di pomodoro Heinz e poi faremo una piccola pausa di un giorno mentre aspetto il successivo buono per il banco alimentare e per primo piatto servirò qualsiasi zuppa avranno domani.” Poi uno degli altri dirà: “Sbocconcellare una scelta di semi del parco è stato decisamente insolito, e lo scherzo di spegnere le luci per nasconderci dall’ufficiale giudiziario è stato così divertente che darò come voto un otto.” 

Tutto questo ha luogo in un’atmosfera di ostilità nei confronti delle persone che vivono di sussidi, che si suppone stiano sgraffignando cifre senza precedenti mentre trascorrono tutto il giorno in casa con le tapparelle abbassate. Dunque il motivo dell’aumento del numero di coloro che si rivolgono ai banchi alimentari deve essere da attribuire a un’improvvisa impennata di pigrizia. Durante l’anno scorso altre 300.000 persone hanno pensato: “Non sopporto più il fastidio di farmi il panino da solo. Dunque compilerò una serie di moduli per chiedere un buono per il banco alimentare, dimostrando il mio basso reddito, farò la coda alla chiesa e mi prenderò un panino già fatto da un volontario.” E’ la sola spiegazione. C’è, per esempio, Kenny, la cui storia è stata narrata ieri su questo giornale. Ha una lesione alla spina dorsale che gli impedisce di lavorare, e tuttavia si dà da fare a tempo pieno come badante di sua moglie, ancora più malata. Le modifiche al sistema dei sussidi lo hanno reso dipendente da un banco alimentare. Vedete, con certa gente è solo “ricevere, ricevere, ricevere”, non è vero?

Il racconto ripetuto da molti richiedenti parla non solo di un cambiamento delle regole, ma anche di un cambiamento dell’atteggiamento. I sussidi sono periodicamente sospesi, i pagamenti ci mettono di più per arrivare e, come mi ha detto una donna invalida questa settimana: “Adesso ho il terrore di qualsiasi lettera arrivi per raccomandata, nel caso sia una lettera che mi comunica che mi sono stati tagliati i sussidi.” 

Presumibilmente qualcosa di simile vale per un altro richiedente, Philip Green, proprietario di Topshop, la cui moglie risiede a Monaco, risparmiando così alla famiglia del magnate centinaia di milioni di tasse. 

Fortunatamente il governo ha avuto un morso alla coscienza e per lui ha scelto una strategia diversa. Invece di inviargli una lettera minacciosa lo ha invitato a essere uno dei propri consulenti: su come tagliare la spesa pubblica. E deve essere la persona ideale per il posto, a gironzolare lungo le file ai banchi alimentari dicendo: “Ora che avete avuto quella margarina, perché non la fate durare di più mettendone metà su un conto all’estero nelle Isole Cayman? E mettete il vostro buono a nome di vostra moglie, così potrete avere del latte e una banana.”
(Fonte
Fonte originale: The Independent
traduzione di Giuseppe Volpe
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