domenica 2 giugno 2013

Questi "bifolchi", incompetenti, ladri, ... non vogliono capire che se il popolo non ha soldi da spendere crolla tutto!

La crisi schiaccia gli stipendi Anche chi ha un posto è povero

 Negli ultimi 10 anni paghe battute dalla corsa dell’inflazione

 
 Il decennio 2002-2012 ha registrato il fallimento delle politiche salariali e retributive, ha appiattito i differenziali, non ha individuato né costruito vere pratiche di meritocrazia. Quanto più si è parlato di riconoscimento del merito e dei risultati delle prestazioni lavorative, tanto più si sono mortificati gli sforzi, sia nel pubblico che nel privato.  

L’unico risultato evidente, sebbene non ancora diventato elemento di consapevolezza e di reazione sociale e politica, è quello di un appiattimento delle retribuzioni, di una riduzione dei margini di dinamismo delle retribuzioni variabili, di una ripresa di politiche aziendali non trasparenti e di breve respiro, fortemente discrezionali e, soprattutto, di una perdita netta del potere d’acquisto. E questo slittamento ha investito tutti: operai, impiegati, quadri, dirigenti, lavoratori col posto fisso e lavoratori intermittenti e precari. 



Nessuno si è salvato. Se andiamo ad analizzare dieci anni di retribuzioni in Italia, l’effetto ottico distorsivo è quello di una crescita apparente. Ovviamente, sul piano nominale, tutti sono cresciuti. Fatto 100 il 2002, gli operai sono cresciuti nel 2011 al 122,2, nel 2012 al 124,4. Gli impiegati al 119,2 nel 2011, al 123,6 nel 2012. I quadri al 129 nel 2011 e al 128,7 nel 2012; i dirigenti al 118,1 nel 2011 e al 121,3 nel 2012. Tutto bene, quindi? Niente affatto. Se infatti verifichiamo i valori reali e rapportiamo i valori nominali con l’andamento dell’inflazione, la crescita diventa un salasso, per tutti. I prezzi al consumo sono cresciuti al 124,5 nello stesso periodo (2002-2012). Da cui si evince che solo i quadri si sono in parte salvati. Ma se prendiamo invece il dato più realistico, e cioè quello dei prezzi al consumo dei beni ad alta frequenza d’acquisto, quelli che vengono comprati dalla stragrande maggioranza delle persone, la tosatura diventa ancora più evidente: dal 2002 al 2012 questo indice sale al 133,1. Tutti colpiti, quindi, e senza la copertura del potere d’acquisto. Lo stesso succede se adottassimo l’indice Ipca, l’indice europeo armonizzato. E questo vale per quanto riguarda le retribuzioni lorde che, come ben si sa, subiscono poi un’ulteriore tosatura per tasse e contributi. 

Da qui sono partiti i vari tentativi di contenimento del costo del lavoro, di riduzione del cosiddetto cuneo fiscale (differenza tra salario lordo e salario netto in busta paga) e di agevolazione degli stipendi di produttività, sinora con scarsissimi effetti pratici. Anche le ipotesi di decentramento contrattuale e di revisione del peso dei contratti nazionali collettivi di lavoro non ha finora prodotto risultati significativi. Del resto la struttura del sistema industriale e delle imprese italiane vede il netto prevalere delle piccole e piccolissime imprese: se il 97 per cento delle aziende è sotto la soglia dei 50 dipendenti, la contrattazione aziendale o di territorio rischia di essere una pia illusione, a favore del mantenimento della funzione centrale del contratto nazionale che, anche se tende ad appiattire e uniformare la realtà, riesce ancora a offrire tutele e miglioramenti che altrimenti sarebbero negati. La compressione salariale e l’appiattimento retributivo hanno inoltre fatto impietosamente emergere un altro fenomeno: essere poveri pur avendo un lavoro.  

La coincidenza virtuosa tra lavoro, stipendio e sicurezza sembra non reggere più. Si è formato un nucleo forte dentro la classe lavoratrice, quello rappresentato dai cosiddetti working poor, i poveri che lavorano, anche con un contratto a tempo indeterminato. Se la maggioranza degli operai arriva a malapena a 1200-1300 euro netti a mese, il loro tenore di vita e il loro contributo ai consumi è davvero ridotto. Senza contare i compensi erogati ai cosiddetti precari, che in molti casi non riescono a superare i 1000 euro al mese. È da qui che si è messa in moto una demotivazione al lavoro, ritenuto un investimento che non vale più la pena fare. È da qui che deve partire, invece, una nuova politica retributiva: legandola al tema del potere d’acquisto, della produttività, del merito e della partecipazione. 
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