lunedì 29 aprile 2013

PALLA AL CENTRO




Se non suona troppo irriverente, l’immagine di Giorgio Napolitano che esce a sorpresa dalla porta del suo studio per venire a stringere felice le mani del neo-premier Enrico Letta mentre parla ai giornalisti a me ha ricordato le scene finali del festival di Sanremo di qualche anno fa, quando Pippo Baudo abbracciava la giovane promessa arrivata prima sul podio davanti a telecamere e fotografi.

C’è in quell’immagine tutto il senso dello scampato pericolo, il più grave che il Paese correva dal punto di vista di Napolitano: restare ancora senza governo, a due mesi dalle elezioni, dopo aver sfiorato il pericolo di una crisi istituzionale sull’elezione del Capo dello Stato una settimana fa. Napolitano ce l’ha fatta, Enrico Letta anche, abbiamo un governo, è già qualcosa.
Nel nuovo governo c’è qualche ottima new entry, su tutte Cecile Kyenge, la novità più bella e emozionante che non a caso ha già scatenato le reazioni furibonde della Lega. E poi Graziano Delrio, tra i personaggi politici più interessanti spuntati dalle amministrazioni locali negli ultimi anni. Emma Bonino, che finalmente approda a un incarico di prestigio (gli Esteri) dopo tanto girovagare tra i social network, e Fabrizio Saccomanni all’Economia, insieme ad Annamaria Cancellieri alla Giustizia e Enrico Giovannini al Lavoro sono i nomi più cari a Napolitano, compongono un’ideale quota Quirinale. E poi ci sono tante seconde, terze, quarte file spedite sul fronte dai generali in rotta.

Governo politico, l’ha definito Napolitano. A ragione: nei mesi scorsi ci siamo divisi sulle formule, governo di scopo, governo di minoranza, governo di servizio, governo della non sfiducia… Oggi nasce invece un governo basato su una maggioranza politica, senza infingimenti, senza mascherature tecniche. Il governo Pd-Pdl, Letta-Alfano, con la benedizione (ingombrante) di Berlusconi. È la prima volta che succede dal 13 maggio 1947, quando cadde il governo De Gasperi tripartito Dc-Pci-Psi. Da allora in poi, per 66 anni, non era mai successo che in un governo ci fossero i ministri di schieramenti che alle elezioni si erano presentati come alternativi. I governi Andreotti del 1976-79 potevano contare sull’astensione e poi sul voto favorevole del Pci, ma mai i ministri democristiani si mescolarono con ministri comunisti. Nel governo Ciampi, esattamente vent’anni fa, la convivenza tra ministri dc e ministri di area Pds durò poco più di ventiquattro ore: il voto segreto della Camera che salvò Craxi dalle autorizzazioni a procedere richieste dalla Procura di Milano provocarono le dimissioni dei ministri occhettiani (e dell’allora verde Francesco Rutelli).

Nella foto di gruppo, invece, oggi entrano ministri del Pd e ministri del Pdl, partiti che si sono combattuti e hanno chiesto il voto perché al governo non andassero gli altri. Ora ci saranno tutti e due, insieme ai montiani di Scelta civica: un nuovo Tripartito. Operazione spericolata, anche perché i contraenti del patto non arrivano alla pari al momento della firma. Il Pd è un partito distrutto, acefalo, senza leader, progetto politico, identità. Il Pdl, invece, festeggia: alla Camera per dire i deputati del Pd sono 293, quelli del Pdl sono appena 97, eppure nel governo conteranno allo stesso modo, o quasi. Berlusconi può ritenersi a buon titolo il vincitore della partita post-elettorale: con le sue azioni compatte al tavolo del cda della politica ha designato l’assetto di comando, mentre il Pd che aveva la maggioranza delle azioni le ha disperse da solo.

Ecco perché, a leggere le reazioni, il governo appena nato sembra guidato dal Pdl, mentre il Pd sembra sparito. Così non è: Enrico Letta è uno dei fondatori del Partito democratico, un ulivista della prima ora, a fianco di Beniamino Andreatta prima e di Romano Prodi poi. Ma certo non è mai stato iscritto al Pci, quando i suoi coetanei militavano nella Fgci lui era nel movimento giovanile democristiano (con Alfano). È il volto di un Pd non più discendente dal Pci-Pds-Ds, ma semmai dalla Balena Bianca, che stringe l’accordo con il Cavaliere. La conclusione paradossale di una parabola cominciata mesi fa, quando i gazebo delle primarie furono recintati tra il primo e il secondo turno per impedire (chi lo ricorda?) che gli elettori del Pdl si infiltrassero per votare per Renzi, il commensale di Silvio. Oggi i vincitori di quella campagna, avendo perso le elezioni, finiscono per fare un governo con il Giaguaro. Non ci sono più nemmeno i figli di un dio minore, come li chiamava D’Alema, gli ex Pci che potevano andare al governo solo se guidati da un non comunista. In questo caso i figli non si vedono proprio. La sinistra tradizionale è spazzata via. Il governo, più che di centrosinistra-centrodestra, è di Centro. Mobile, giovane, dinamico ma pur sempre di Centro.

Una parola che al nuovo premier non dispiace affatto. Nel 2009 Letta ha pubblicato un libro (”Costruire una cattedrale”) per teorizzare che tra le famiglie politiche non ci sono solo i progressisti, ma anche i moderati, e che insieme devono stare alleati contro i populisti (ieri era l’offerta di un patto con Casini contro Berlusconi, oggi è un’alleanza con il Pdl contro Grillo). Va riletto quel libro per capire oggi chi è Letta e qual è il suo progetto. A partire da quell’episodio significativo: «Dovevamo organizzare la convention per lanciare l’alleanza tra il Ppi di Martinazzoli e il Patto Segni. Kohl aveva dato il suo assenso. Si cercava un altro statista internazionale. Andreatta, allora ministro degli Esteri del governo Ciampi, mi mandò da Giscard. Non fu facile, ma alla fine l’ex presidente francese disse sì. A quel punto cominciarono le perplessità interne: un capo della destra, sia pure moderata, poteva non piacere alla nostra gente. Fu con grande imbarazzo che dovetti tornare da Giscard, chiedergli scusa e avvertirlo che avevamo cambiato idea. Come se avessimo appunto vergogna di parlare ai moderati. Di cambiare schema mettendo tutto in discussione».

Letta aspira a essere nostro Giscard, che diventò presidente della Francia a 48 anni, un anno in più del nuovo premier: il leader di un centro riformatore che potrà nascere anche in Italia se il suo governo funzionerà. È questo il suo orizzonte strategico: fondare un partito nato dall’alleanza tra quella parte del Pd che non è più di sinistra (o non lo è mai stata) e quella parte del Pdl (quella che si riconosce in Alfano?) che spera nei prossimi anni di liberarsi dolcemente del Cavaliere. I due spezzoni su cui ruota il governo che nasce oggi: i due post-Dc Letta e Alfano che potrebbero stare insieme un domani nello stesso partito o nella stessa coalizione. Con la sinistra, o quel che resterà, costretta a fare da alleato residuale, un po’ come i socialisti nel centrosinistra egemonizzato dai democristiani.

Fine di un ciclo lungo, iniziato giusto venti anni fa con il referendum sul maggioritario di Mario Segni, era il 18 aprile 1993. In un’altra giornata piovosa di fine aprile muore quel disegno politico: il bipolarismo, la possibilità della sinistra di andare al governo vincendo le elezioni. Fine delle primarie, dei gazebo, dei leader scelti dai cittadini, tutti sforzi inutili se poi i governi si fanno al Quirinale, tra i migliori perdenti, senza streaming. È questo il destino che si è consumato con il sacrificio di Prodi, è questa la posta in gioco di questo governo, possibile che i furbissimi strateghi della sinistra non se ne rendano conto? E Renzi, leader bipolare e tendenzialmente presidenziale, l’ha capito che il futuro bipolarismo, se l’operazione riesce, sarà tra il Centro vedroide e il Movimento 5 Stelle?

Ma anche per raggiungere il suo obiettivo strategico il neo-premier Enrico Letta non potrà abbassare la bandiera del cambiamento. Non solo perché glielo chiede l’elettorato del Pd, non solo per evitare i contraccolpi alla base del partito che ci saranno o i deputati come Pippo Civati che già minacciano di non votare la fiducia. Ma perché di riformismo debole, molle, doroteo, questo Paese è morto, come scriveva ormai molti anni fa Andreatta. E questo governo avrebbe vita brevissima se fosse la semplice blindatura di una classe dirigente che ha fallito su tutta la linea. 

Alzi qualche bandiera, Letta, e alzi qualche volta la voce, ora che ha il potere di farlo. Lo deve non solo al Pd, ma anche alla sua generazione che per la prima volta arriva ai vertici del governo. Una generazione, quella nata negli anni Sessanta e arrivata all’età adulta negli anni Ottanta, rappresentata spesso come amorfa, senza voglia di combattere, una generazione di bravi ragazzi ansiosi di farsi cooptare. Sono bravi ragazzi, alcuni ministri del governo Letta, primi della classe rampanti, carrieristi, mai in conflitto, sempre speranzosi di ottenere l’approvazione dei grandi. E arrivano al governo non perché hanno vinto una battaglia ma, al contrario, perché i loro capi, i generali, hanno perso la guerra. Ora hanno l’occasione di rovesciare quei tavoli che non hanno mai sfiorato per paura di disturbare: hanno l’occasione di farlo perché nulla è rimasto in piedi, nulla resta da conservare. 

Ci riusciranno? Il dubbio, almeno, è lecito. E la critica, soprattutto quando si fanno le larghe intese, è più che mai legittima. Il governo è politico, ha detto il presidente Napolitano, non è un dogma religioso, il collante della salvezza nazionale: un governo politico si può e si deve attaccare se necessario, a un governo politico ci si può opporre, se resta immobile, se è fondato semplicemente su un patto di sopravvivenza, il tirare a campare.

«Questo governo è una necessità», mi diceva ieri un importante dirigente del Pd, ex Ds. La solita storia della Necessità, così rassicurante quando ci sono da spiegare le svolte peggiori: se non ci sono alternative, se non si può fare altro, che colpa ne ho io? La sinistra si è trasformata nella vestale della Necessità, di questo è morta. Ma anche questa sera si può in realtà continuare a pensare che in politica c’è sempre un’alternativa, una strada non percorsa da sperimentare. Perché la politica è lo spazio della libertà.
(Fonte)
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