mercoledì 6 febbraio 2013

Proiettili all'uranio impoverito: morti, ammalati e danni alla natura

Proiettili all'uranio, 6 riminesi tra i malati


L'inchiesta del sostituto procuratore Ercolani dopo la morte del maresciallo Mancuso in missione a Nassirya



Proiettili all'uranio impoverito, la Procura della Repubblica di Rimini ha citato, come persona informata sui fatti, l’ex pilota Domenico Leggiero, esponente dell’Osservatorio militare. Leggiero è stato ascoltato ieri mattina a Rimini, dal sostituto procuratore Davide Ercolani che ha aperto un fascicolo d'inchiesta per omicidio colposo (articolo 589 del codice penale) e l’articolo 117 del codice penale militare di pace nel quale si ipotizza l’omessa esecuzione di un incarico.

 Il fascicolo aperto da Ercolani, è la prima indagine penale in Italia sulla questione dei proiettili all'uranio impoverito, usati in Bosnia, Iraq e Kossovo. Inizialmente fascicolo conoscitivo è diventato a carico di ignoti, in seguito alla denuncia dei familiari del maresciallo dei carabinieri, Giovanni Mancuso, morto nel 2010, che partecipò ad una missione a Nassirya. Ieri Leggiero ha consegnato alla Procura di Rimini documentazione informatica, una banca dati con i nomi dei 70mila militari italiani impegnati in missioni all'estero, le circolari interne del ministero della Difesa tra il 1999 e il 2000 a proposito dei rischi dell'uranio impoverito e le comunicazioni Nato sull'argomento. Ora al sostituto procuratore Davide Ercolani il compito di spulciare il lungo elenco di nomi alla ricerca dei soldati riminesi, residenti in Provincia o in servizio presso i carabinieri o l'esercito a Rimini, che si sono ammalati dopo una missione di pace.

Tra quei 70mila vi sarebbero già sei militari riminesi che hanno avuto problemi di salute, compatibili con le patologie già riscontrate in altri casi riconducibili all'uso di proiettili all'uranio. Il primo passo sarà quello di rintracciare questi militari riminesi, di nascita o di adozione, per valutarne le condizioni di salute. Se sono ancora vivi. Punto fondamentale è l'acquisizione delle cartelle cliniche che Ercolani ha già ordinato sia dei militari dell’esercito che quelli dei carabinieri che hanno preso parte alle missioni e che potrebbero essere venuti a contatto con l'uranio. L’uranio impoverito ha già prodotto in tutta Italia la morte di 305 militari. Ma i malati sono almeno 3500.

La lista, quella consegnata a Leggiero dal Ministero della Difesa e ora anche in possesso della Procura di Rimini è ferma al 2007. Non si esclude quindi che “la lista dell’uranio” possa allungarsi. Per far luce su una delle questioni militari, in tempo di “pace”, più spinose per la nostra Difesa serve la collaborazione delle famiglie e dei militari che hanno subito danni. E che pagano con la vita. E’ un appello che Leggiero non si stanca mai di fare, da quando da anni oramai, segue questa terribile scia di morte. Leggiero ai militari dice: “Non abbiate paura di parlare a prescindere dalle norme sul linguaggio da adottare. Sarete più tutelati che dal silenzio imposto”.

E proprio in questi giorni, il Tar di Salerno ha condannato il ministero della Difesa riconoscendo il nesso di causalità con l’uranio impoverito e la malattia di un militare. Sentenza che apre uno spiraglio per veder riconosciute come cause di servizio, anche le morti o le malattie dovute ai proiettili all’uranio.

URANIO IMPOVERITO, CONDANNATO MINISTERO DELLA DIFESA

Il Tribunale ha accettato il ricorso di un soldato nei confronti del Ministero della Difesa ritenendo fondata la mancata applicazione delle norme necessarie a garantire la salvaguardia della salute dei militari. “Una sentenza molto ben articolata” – ha commentato a Justice Tv il legale del ricorrente, l’avvocato Angelo Fiore Tartaglia – “perché il collegio dà atto anche di errori concettuali che ha posto in essere l’Amministrazione sul caso di questo militare. Il TAR Salerno riconosce che il ricorrente ha provato il nesso di causalità con l’uranio impoverito e le nano particelle dei metalli pesanti quindi l’effetto dell’esplosione delle armi all’uranio impoverito”.

La sentenza racconta la storia di un sottoufficiale dell’Esercito Italiano presente in teatri di guerra in cui si è usato armi con uranio impoverito e di una causa di servizio per il riconoscimento dei “benefici previsti per le vittime della criminalità organizzata e del terrorismo” intentata nel 2008 e respinta il 23 luglio 2009 con parere negativo del Comitato di verifica per le Cause di servizio, ritenendo indimostrato il rapporto di causalità fra missioni e malattia. Nessuna certezza e, allo stesso tempo, impossibilità di escludere un nesso causale arrivano invece dalla recente relazione conclusiva della Commissione d’inchiesta del Senato, guidata da Rosario Costa (Pdl), sull’esposizione a possibili fattori patogeni, con particolare riferimento all’uso dell’uranio impoverito.

La Commissione – ha proseguito l’avvocato Tartaglia – non prende posizione sulle tesi scientifiche assolutamente prevalenti circa la pericolosità dell’uranio impoverito. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, il massimo organo sanitario a livello mondiale, parla di questa pericolosità, sia chimica che radioattiva”. Alla luce di quanto detto, può dirsi lecito il ricorso a questo tipo di armi? “L’Onu, proprio su spinta di politici italiani, – ha risposto il legale – ha votato la messa al bando di questi armamenti.

Solo che non sono stati ancora stati catalogati come armi di sterminio di massa e quindi ad oggi non è stata formalizzata l’illiceità del loro utilizzo”. I militari italiani hanno mai usato armi con uranio impoverito? “Non vi è prova che i militari italiani abbiano mai utilizzato queste armi – ha concluso l’avvocato Tartaglia – Vi è la prova che nei luoghi dove hanno prestato servizio, come la Bosnia e il Kosovo, è stato usato in modo massiccio questo tipo di armamenti. Quello che è certo è che non erano stati informati dei rischi di trovarsi in ambienti altamente inquinati né sono state adottate misure di sicurezza. Non mi risulta che questo venga fatto nemmeno oggi”.
(Fonte


Falco Accame (ANAVAF) risponde a Di Paola sull’Uranio Impoverito

In primo luogo mi auguro che non sia vero quanto afferma il Ministro nell’articolo “Forze Armate non usano uranio impoverito” (Esercito Italiano – il Blog) circa il fatto che “l’Italia non ha mai usato armi all’uranio impoverito”, perché ciò significherebbe che i carri armati da noi prodotti non sono stati testati per quanto riguarda la resistenza all’impatto nei riguardi delle armi all’uranio impoverito da cui possono venir colpiti. E ciò è assolutamente deprecabile per quanto riguarda la sicurezza del personale che opera all’interno dei carri armati. A tale personale si deve infatti assicurare la massima possibile protezione. Tale protezione può essere assicurata da rivestimenti (come corazzature e blindature) all’uranio impoverito. Speriamo quindi che il Ministro rettifichi questa versione dei fatti, anche perché desterebbe preoccupazione per la sicurezza del personale.
  
In secondo luogo è importante conoscere l’efficacia delle misure di protezione personali (maschere, filtri, ecc.) nei riguardi della difesa dalle radiazioni e dal particolato dell’uranio impoverito e dei metalli pesanti (nanoparticelle e microparticelle), sempre al fine di assicurare la massima protezione possibile al personale (vi sono ad esempio forti perplessità sull’efficienza dei filtri. Tra l’altro una domanda spesso rivolta in passato che non ha mai trovato una risposta).
In terzo luogo il nostro personale non è esposto solo al fuoco delle PROPRIE armi che può presentare dei rischi (vedi ad esempio i missili anticarro Milan impiegati dal nostro personale – nei poligoni e nelle missioni all’estero) che causano emanazione di torio dai sistemi di guida.
Il nostro personale può trovarsi esposto a FUOCO AMICO, ad esempio al fuoco degli alleati Usa che già dall’epoca della Somalia (dove era presente il nostro personale) hanno impiegato i carri armati Abrams che sono dotati di armamento all’UI e hanno adottato dal 1993 rigorosissime misure di protezione, nonché continui e stringenti controlli sanitari.

Il nostro personale è stato esposto a FUOCO AMICO già dalla missione in Somalia, e successivamente in Bosnia dove sono stati lanciati 10800 proiettili all’U.I. e in Kosovo 31000 proiettili (a parte i missili da crociera).
Il nostro personale è stato esposto ai rischi conseguenti, per di più, per il fatto che non era dotato delle necessarie misure di protezione personali che, invece, i reparti degli Stati Uniti avevano adottato già dal 1993.
In quarto luogo nei poligoni ad utilizzo internazionale (vedi ad esempio Salto di Quirra, Teulada, Nettuno, Dandolo) non possiamo avere la certezza che non vengano utilizzate armi all’U.I. anche perché gli stranieri che impiegano il poligono possono avvalersi di una semplice AUTOCERTIFICAZIONE (che quindi non implica ulteriori verifiche).

Inoltre non abbiamo potuto disporre in passato di strumenti per rilevare le radiazioni (deboli). Infatti, ad esempio in Bosnia, dove sono stati lanciati oltre 10 mila proiettili impoverito, non ci siamo accorti della presenza dell’uranio perché lo strumento utilizzato (Intensimetro RA 141 non era sufficientemente sensibile per rilevare le radiazioni (striscia esplorata: 10 cm!). E’ mancata quindi nei nostri poligoni la possibilità di rilevare la presenza di eventuali radiazioni.

Inoltre noi concediamo agli utilizzatori stranieri la possibilità di effettuare loro stessi le “bonifiche” e quindi se restano sul terreno dei proiettili inesplosi, vengono recuperati dai detti enti stranieri in queste “bonifiche” e noi non abbiamo la possibilità di ulteriori controlli.

Infine non abbiamo mai emanato alcun “bando internazionale” di specifico divieto dell’impiego di armi all’uranio impoverito, precludendoci così la possibilità di intervenire, anche in sede internazionale con adeguate sanzioni in caso di violazione del bando.
(Fonte)
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