giovedì 31 gennaio 2013

E se quello di MPS fosse solo il primo di una serie di fallimenti “di sistema”?

La guerra delle banche centrali e l’anarchia di quelle private

 

Agli inizi di gennaio Demostenes Floros, analista geopolitico ed economico, sottolineava il nuovo anno si sarebbe aperto con le tre questioni geoeconomiche lasciate irrisolte nel 2012: la volatilità del prezzo del petrolio, la crisi del debito Usa – malgrado l’intesa anti-fiscal cliff – e un rischio di progressiva “balcanizzazione” del mercato finanziario dell’Eurozona (peraltro già in atto a livello continentale).
L’andamento del greggio, e più in generale delle commodities, è dovuto al continuo ricorso che le banche centrali fanno alla leva del cambio: si svalutano le rispettive monete per rendere le proprie merci appetibili sui mercati esteri, rilanciando la crescita. Già in ottobre lo stesso Floros prefigurava una guerra tra svalutazioni volte a fare ripartire l’economia grazie alle sole esportazioni. E questo in palese contraddizione col mandato principale di ogni banca centrale che si rispetti, ossia il contenimento del livello dei prezzi. Perché?
Le banche centrali sono gli esecutori, ma i mandanti sono i governi. Tanto ansiosi di vedere il segno più davanti al PIL quanto incapaci di formulare una soluzione alla crisi che non passi per la leva monetaria – cosa che peraltro l’Eurozona non può fare, come Germania comanda.
Per il momento a farne le spese è l’euro, messo sotto pressione dalle politiche di svalutazione scelte da Stati Uniti e Giappone. Secondo il numero uno della Bundesbank Jens Weidmann il rischio che stiamo correndo è quello che si inneschi un vero e proprio conflitto a colpi di tassi di cambio, che provocherebbe una serie di svalutazioni, minacciando la competitività tra i Paesi.
Ma se le politiche monetarie le decidono i governi, cosa ne è della decantata indipendenza degli istituti centrali? Fabrizio Goria su Linkiesta risponde che l’era della separazione tra potere economico e potere esecutivo sembra volgere al termine:

La guerra valutaria che verrà, ma che per molti versi già esiste, è nata per via delle lacune della politica. Come ha ben argomentato sul Financial Times il capo-economista di Hsbc, Stephen King, è finita l’era dell’indipendenza delle banche centrali mondiali. Le ragioni sono diverse. La prima, più evidente, è la situazione di estrema emergenza in cui si sono trovati i governi dopo il fallimento di Lehman Brothers, la quarta banca statunitense. Di fronte alla possibilità di un collasso del sistema finanziario, possibile a causa dell’incredibile ramificazione dello stesso, i governi hanno chiesto uno sforzo mai domandato prima alle proprie istituzioni monetarie. Hanno chiesto di fare di più, di guardare anche alla terza faccia della medaglia, quella degli interventi straordinari. Così è stato fatto e solo così si è riuscito ad arginare l’emergenza legata al collasso del mercato immobiliare.
Il secondo motivo è legato alla crescente competizione
 fra i Paesi. Le aree emergenti sono sempre più aggressive, mentre quelle sviluppate stanno sperimentando un rallentamento strutturale del proprio modello di sviluppo. Già due anni fa il ministro brasiliano delle Finanze, Guido Mantega, aveva messo in guardia le economie avanzate da un possibile conflitto valutario. «Le banche centrali sono entrate in un nuovo mondo, in cui sono tutti contro tutti: è una guerra senza confini in cui non ci sarà alcun vincitore», affermò parlando dal World economic forum. Aveva ragione.
Nonostante le evidenze
, c’è chi ritiene che l’ipotesi di una guerra monetaria sia «esagerata». È il caso del capo-economista del Fondo monetario internazionale (Fmi) Olivier Blanchard. A margine della presentazione dell’ultima revisione del World economic outlook, Blanchard ha spiegato che sembrano esserci i presupposti per un tal scenario. Quello che è certo è che è in atto un ribilanciamento dell’economia globale, che obbligherà governi e banche centrali a sperimentare nuove strategie per contrastare il rallentamento delle aree avanzate. E non è detto che queste siano le più adatte.
C’è poi un altro aspetto.Se da un lato le banche centrali sono sempre meno indipendenti, dall’altro quelle private sono sempre più fuori controllo.
Il documento di Basilea 3, che in teoria dovrebbe definire gli standard patrimoniali per mettere in sicurezza le banche, in realtà rappresenta l’ultimo regalo che l’Europa ha fatto agli istituti di credito, anziché uno strumento per salvaguardare l’economia post Lehman Brothers. In metà gennaio il Comitato di Basilea, cuore della Banca dei regolamenti internazionali (Bri), ha deciso di procrastinare l’entrata in vigore dei nuovi standard, dando tempo fino al 2019 (il limite precedente era il 2015) per portare il livello, a colpi di 10 punti percentuali l’anno, allo standard di sicurezza del 100%.
C’è chi afferma sia una vittoria per il mercato e per le imprese, che potranno avere più liquidità. Eppure, sembra una vittoria solo per i banchieri. Nel mentre, dovrà essere compito delle banche centrali vigilare, sperando di non indossare ancora una volta i panni del prestatore di ultima istanza. Se l’obiettivo principale della Bri era quello di ridurre i rischi di shock finanziari sistemici, questo è mancato completamente. Linkiesta:
Saranno le banche centrali a essere l’ago della bilancia sui mercati finanziari, aumentando il proprio ruolo di market maker, sperimentato attivamente nel 2012. Federal Reserve, Banca centrale europea, Bank of England, Banca nazionale svizzera, Bank of Japan e Bank of Canada hanno mutato la loro natura per cercare di mettere una toppa agli errori dei finanzieri. In alcuni casi con profitto, vedasi Fed e BoE. Altri, con estrema difficoltà, come successo alla Bce. Solo dopo essersi resa conto di aver contribuito a rompere il meccanismo di trasmissione della politica monetaria, l’istituzione di Draghi è tornata sui propri passi, riuscendo a stabilizzare la situazione.
L’impressione finale è che il Comitato di Basilea
 non poteva far altro. Chiedere alle banche di dotarsi di capitale di sicurezza in questo momento sarebbe stato troppo oneroso. Due i motivi. Da quando è scoppiata la bolla del mercato immobiliare statunitense gli istituti di credito sono impegnati in un lento e inesorabile processo di riduzione di asset e rischi correlati. Si tratta del deleveraging. Per le banche europee, spiegava Morgan Stanley già nel 2011, la contrazione è di circa 2.000/2.500 miliardi di euro fino al 2015. Ancora più elevato secondo i calcoli di Bank of New York Mellon, che ha calcolato che gli istituti di credito europei dovranno ridurre asset per quasi 3.000 miliardi di euro nell’intervallo temporale 2011-2015.
Questo per quanto riguarda il sistema bancario “ufficiale”. A cui se ne affianca un altro, meno conosciuto e meno regolamentato. E pertanto più pericoloso.
Un rapporto del  Financial Stability Board di novembre rivelava che il sistema bancario ombra non è mai stato così grande come oggi. Il problema principale, notava ancora Fabrizio Goria, sono gli intermediari finanziari non bancari (Nbif), in quanto alcuni di essi, nel caso si ritrovassero corti di liquidità, potrebbero mettere a repentaglio la sopravvivenza delle intere aree in cui operano:
Il motivo, sottolinea il Financial stability board, è duplice. Da un lato la mancanza di controllo, unita all’elusione della poca vigilanza che esiste, ha creato dei giganti finanziari che gestiscono immense quantità di asset spesso troppo complessi da comprendere. Come spiega a Linkiesta una fonte di Moody’s «ci sono investimenti in prodotti strutturati complessi che hanno un profilo di rischio semplicemente incalcolabile, dato che potrebbero volerci giorni prima di sapere che cosa è stato cartolarizzato». Dall’altro lato, tuttavia, ci sono gli aspetti più preoccupanti, ovvero l’interdipendenza e l’interconnessione. Questi intermediari finanziari hanno bisogno dei canonici canali di liquidità per sopravvivere e, di contro, forniscono a loro volta la liquidità al sistema bancario. È un gioco mortale. Nel caso un intermediario finisca a gambe all’aria, i risvolti potrebbero essere rilevanti per molti istituti di credito. Viceversa, se gli ingranaggi del sistema interbancario non sono correttamente oliati, ecco che il sistema bancario ombra si inaridisce. Pensare ai due sistemi bancari, tradizionale e ombra, come due elementi a sé stanti non è possibile: sono le due facce della stessa medaglia. Il problema, semmai, è che si è arrivati al punto che dalla sopravvivenza dell’uno dipende quella dell’altro.
Intanto, in Italia siamo alle prese con la grana Monte dei Paschi, uno scandalo finanziario che ha messo in ginocchio l’istituto bancario più antico del Belpaese. E che vede ora coinvolta anche la Banca d’Italiaqui alcuni stralci del rapporto interno di fine 2009 che lanciava l’allarme sulla finanza avventurosa di MPS, rimasto ignorato finché i nodi non sono venuti al pettine.
E se quello di MPS fosse solo il primo di una serie di fallimenti “di sistema”?
 
(Fonte)
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